Salvatore D'Onofrio


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Angelo Calabrese

recensioni


Per Melito - A. Calabrese

Il pittore e la città:
Salvatore D'Onofrio "Per Melito".

La Malitum o Melitum medioevale, fertile e dolce di frutti a poco più di dieci chilometri da Napoli, cui ora è direttamente congiunta senza alcuna soluzione di continuità, come è collegata ad altre fiorenti cittadine che si susseguono documento delle laboriosità creative di gente che, mentre avanza edificando il nuovo e l'attuale, serba nel progresso la forza illuminante della tradizione, vanta, nell'arte e nella poesia di un suo figlio particolare, un mentore e un cantore di voce e testimouianm di forte tempra.
Salvatore D'Onofrio vanta infatti l'orgoglio delle sue radici con le ragioni della pietas che onora gli affetti irrinunciabili, la civiltà del lavoro, la saggezza tramandata per sangue
• cellule, vissuta nella straordinaria belleaa che hanno mani e volti di sacrifici con cui si continua a edificare un monumento all'amenità e alla vita.
E Melito è panorama, paesaggio, dimensione urbana e repertorio di volti e verità da non far uscire dalla storia, da affidare al tempo, oltre l'usura che sperpera e cancella: è repertorio di un commosso immaginario che si propone attraverso centinaia di opere, di grandi dimensioni o appena fissate sul foglietto della memoria, di imponenti oli e acrilici,
• di microsegni non meno suggestivi del grande racconto, che si articolano in quel 'noli foras ire' del pittore che non ha bisogno di rinnegare il suo spazio originario per cercare altrove la verità che ha dentro se stesso e in tutto il circostante che gli appartiene a specchio di pensiero e di palpitante sentire.
Salvatore D'Onofrio, vuoi o non vuoi, ti fa amare Melito, specie se diventi 'advocatus diaboli'.
Ti parla, e difende la sua gente, e non si serve di exempla ficca: Melito è suo padre che emerge in tutta la consistenza umana e nella lezione di dignità d'uomo di carattere; è partito, è oltre gli scompensi delle umane grandezze e miserie variamente mescolate, ma resta vero nell'eloquenza dei colori e delle sembianze interpretate a sfida di durata memoriale.
Melito è l'autoritratto del pittore; sono le mani materne di cui Salvatore parla dicendo: "quanto sono belle", perchè, senza la loro testimonianza, quanta storia gli verrebbe meno, quante cose non potrebbe capire o non avrebbe mai inteso.
Melito è "Nicola"; quando ho avuto il piacere di stringergli la mano lo conoscevo da un pezzo, perchè niente è più eloquente di una pagina pittorica interpretativa del carattere, della dose umana, della generosità e dell'amore per la natura.
Gli occhi di "Nicola" con o senza il caratteristico e pratico copricapo, nelle dimensioni di ritratto o in microicona, restano gli stessi, acuti, sinceri e penetranti, profondi e arguti ai segnali minimi, fonti di conoscenza e di comunicazione.
Il pittore coglie il profondo, quello che nessun terzo occhio fotografico potrebbe mai intuire o ricordare: nelle immagini che nella loro coralità fanno storia d'anima e amore di quel paese che "vuol dire non essere soli", ci sono i tracciati di una storia più grande che va ben oltre la cronaca.
Perciò entrano nella storia i ritratti dei protagonisti vissuti e letti in diverse occasioni
• atteggiamenti, belli nella loro infanzia o adolescenza, scoperti con gli occhi del padre che si perde nel profondo di quelli della sua bambina, con il sentimento fraterno, con la generosità dell'amicizia e sopratutto della volontà di essere "patriae non immemor", di consegnare al tempo a venire, al sogno d'eternità, la verità di un uomo che racconta i suoi anni e si precisa nobile nell'opera che giganteggia: il ritratto del patriarca Umberto Chianese è verità di lavoro e umanità; Salvatore D'Onofrio non gli preferisce il Principe o l'Uomo d'alto affare.
Egli interpreta e consegna alla città una presenza che non passerà, che vive ed è celebrato, in vita, per la testimonianza di valori umani.
Ecco quindi il senso di Melito ricognita per protagonisti, quei mille e mille personaggi quotidiani che si imprimono nella memoria proprio perchè diventano familiari, intrinseci alla nostra condizione vitale: il pittore li ha con sè, come sistema culturale, patrimonio, certezza del suo esistere tra gli altri donando cultura e amore. L'esperto di pittura non può fare a meno di fermarsi davanti al ritratto di Stefano Marano, del rev.mo Don Raffaele Abete, figura carismatica per la Città, uomo di fede e conoscitore di umani dissidi ai quali non faceva mai mancare la parola di conforto e l'intervento diretto: anche chi lo ha conosciuto per caso non lo dimentica.
Stupisce la lunga serie di presenze che D'Onofrio "ha" nel suo studio: sono i volti che la luce gli ha fatto scoprire e che egli ha reso nella poesia di tagli arditi, colori espressivi del sentire e della tensione psicologica, nelle felici suggestioni di tratti somatici, custodi di una bellezza che il palpito sintonico percepisce al diapason. Salvatore D'Onofrio restituisce agli eredi di una civiltà che si perde nel crepuscolo dei secoli, la struttura della Città che siamo convinti egli saprebbe interpretare a memoria.
La vive dall'alto, a volo d'uccello, la abbraccia con lo sguardo mentre è pervasa da luci radenti; ne gode i palazzi e monumenti, mirando il cielo terso, cercando respiri umani, gesti cromatici che parlano di varie generazioni: Melito com'è, com'era, come si prospetta, è sogno e speranza d'arte.
Poi ci sono le cose, i fatti con segreto interno, gli oggetti, nature morte, i fiori, la vita dunque che per l'artista è festa d'esistere e insieme magistrale lezione di chi insegna a ritrovare un immenso edificio di forme, luci e memorie, tali da coinvolgere pittore e fruitore in un comune palpito di orgoglio civico.
D'Onofrio dipinge le profondità psicologiche, le illuminazioni istantanee, i primi piani narrativi, la minuzia e la libertà, il particolare astratto e la sensazione profonda. La sua pittura duttile segue i moti psichici investigati dal colore e nel suo universo ogni scatto associativo, ogni registro memoriale, si presenta isolatamente e nella simultaneità.
Questo è stato il mio primo pensiero allorchè mi sono state mostrate le opere dell'Omaggio a Melito.
Quella molteplicità discontinua aveva la sua chiarificazione unificante nel nome caro di una città che consentiva appunto alle varie opere di illuminarsi reciprocamente.
Grandi tele, schizzi minimi, vigorosissimi, un'opera corale in cui scena e attori si fanno organici: una lezione d'arte e d'amore; il figlio e la città sono insieme dentro le opere che dicono presenza e passione: non è il ritorno del figliuol prodigo che riscopre la terra della fuga o dell'esilio.
Salvatore ama tutto ciò che fa, lo investe della sua esuberanza, lo esalta, si lascia travolgere dal sentimento che, per essere generoso, trova le porte aperte: parla la città e svela famiglia, protagonisti, aria, costruzioni, speranze, segrete armonie di cose piccole e magiche, di uomini grandi e dolci testimonianze che solo sa e può esprimere chi difende la sia terra, il suo ruolo, le radici, l'eterno che aleggia sulla loro consistenza e l'effimero che l'umana pietà riscatta alla bellezza.
E questo non è poco.
Specie se il pittore opera in uno spazio autonomo, saldo su radici culturali coerentemente assimilate, librato verso orizzonti che sono ben lontani dalle angustie del pregiudizio, del consumismo e della mercificazione.

Angelo Calabrese


Simulazione e realtà - A. Calabrese

L'arte di D'Onofrio ha radici lontane; il suo realismo non va confuso con una eredità ottocentesca per quanto vigorosa e istintiva, giocata sulla comunicazione emotiva e sugli impasti abbaglianti... Egli rifonda un universo culturale e naturale insieme, guardando all'uomo come misura dello spazio e delle idee praticabili. Qui il pittore è filosofo, poeta, profeta di una coscienza di valori. E proprio sulla scorta di quella presa di coscienza del reale presente in cui tutto naufraga, l'arte con la coscienza della libertà e dell'impegno, restituisce alle cose vive il loro aspetto, il loro senso, il rispetto che l'uomo deve all'uomo conferisce all'opera il senso profondo della garanzia d'eternità. In D'Onofrio Eros sconfigge Thanatos, si dissolve il senso di colpa... Le immagini hanno una densità compositiva, una tridimensionalità volumetrica, parlano dal palcoscenico dove si abbelliscono alla luce: sono vive. La percezione immediata delle cose, dell'esistente non è simbolo per questo pittore che, da Napoli, rinnova la lezione di De Chirico e Sciltian, con ben diverse istanze e motivazioni. Se parliamo di D'Onofrio ritrattista, gli dobbiamo subito riconoscere il dono di una poetica interiore che appunto nel suo "impressionismo d'eternità" percepisce l'integralità dell'evento personaggio. Lo fissa seguendo il percorso della luce che indaga, scopre, vivifica un resoconto che, all'impatto, è maestoso, ampio, solenne-, restituito alla reale esperienza di vita: il tempo e lo spazio della sensazione trasferita in immagini. Tutto è vero in questo artista che fa una pittura mirabile e tanto farà con il suo credo, la sua tenacia, la moralità di un'arte che a tutti i tempi appartiene e resta "a garanzia d'immortalità".

Angelo Calabrese



A garanzia d'immortalità - A. Calabrese

IMPRESSIONI D'ETERNITÀ

C'è una frase di Ojetti che sollecita la definizione di cui ci accingiamo a servirci: « Nella tranquilla luce del tramonto la piazza barocca s'è mutata di colpo in palcoscenico ». L'ora di sole indefinitamente accesa, dove le luci risolvono le forme « vere » delle cose, l'anima che affiora e resta, ha dato vita alla scena, il teatro del mondo non è piú un deserto, ogni presenza-attore ha senso dei continuum, l'opera dell'uomo e quella della natura si conciliano senza salti di generazioni, si connotano nel valore della vita, sono l'immagine di ciò che desideriamo e possiamo sfiorare ogni giorno: siamo di fronte alla pittura di Salvatore D'Onofrio.
E come si giustifica il segreto del barocco, quello che ha radici d'equili¬brio e armonia, che nasce appunto dallo spazio continuo, dal non tramonto, dalla conciliazione del divino e dell'umano, dal sentire, intuire, fare, affidare al tempo che non corrode la mole stupefacente, non per orpelli, bensì per l'aver tentato, per aver inverato e reso corale, un respiro d'eterno come nella virile magnifica intuizione architettonica del Pantheon o del Colosseo.
Afferma Barilli: « Dalla mole del Colosseo è uscito diroccando boccone su boccone, il barocco romano, di fronte al quale quello francese e tedesco (o rococò che dir si voglia) non è altro che barocco con la coda tra le gambe ».
Chiara l'antifona; anch'essa giova al nostro assunto: lo spazio vitale, il policromo, la schiettezza popolare che resta nell'equilibrio del classico, nell'armonia come aspirazione, sotto il sole di tutti, ci fanno comprendere il vero significato di un'arte che ha l'orrore del vuoto, della perdita, che riconosce l'intellettuale raffinatezza, che legge la città come la vita, labirinto di vie e di viuzze tra cui rischiamo di perderci, e, al fasto rutilante, sa accoppiare la pacata sonnolenza, le linee comode, una gaiezza mai antiquata, perché la dose sapiente della luce vale a risvegliare nella sua coltre il sogno dello spazio vivo e vissuto, quello che meglio si identifica con l'anima dei secoli.
L'arte di D'Onofrio ha radici lontane; il suo realismo non va confuso con una eredità ottocentesca per quanto vigorosa e istintiva, giocata sulla comunicazione emotiva e sugli impasti abbaglianti.
Qui il discorso è lungo e complesso, fondato su di una cultura reale e sincera che non chiede l'apporto della memoria, bensì della presenza e sa calarsi nel sociale con quella pregnanza terragna che consacra la manualità, il senso dei fatti e degli affetti, con la consapevolezza della pratica culturale, sperimentata alla didattica, alla conoscenza psicologica e trasfusa nella vocazione di un'arte consapevolmente creativa.
D'Onofrio rifonda un universo culturale e naturale insieme, guardando all'uomo come misura dello spazio e delle idee praticabili. Si rivolge all'uomo come creatore individuale, dotato di coscienza storica e considera l'arte come testimonianza dell'universalmente umano, con la vocazione ad identifi¬care sociale e naturale.
Qualcuno potrebbe obiettare che sono inconciliabili Nietzsche, Freud, da cui scaturiscono la crisi dei fondamenti, la natura che scompare per risolversi in produzione sociale, la soppressione della Legge, la morte dei Padre, le illusioni travolte, l'astratta umanità, lo scontro dell'avanguardia con la restau¬razione e questo espressivo impressionismo che emerge da una terra di nes¬suno.
È vero, a prima vista una congerie di apporti di matrici oppositive potrebbe confondere il fruitore anche acculturato: il lettore che dall'arte trae l'impressione globale si appaga di quella e non scava dentro. Coglie infatti d'impatto il valore e si appaga alla visione, mentre l'indagine per sua natura esige di comprendere.
Il lettore appassionato avverte innanzi tutto che le matrici di questo particolare realismo pittorico sono da ricondursi alla soglia di rottura dell'illu¬sione d'equilibrio classico, avverte che la visione barocca ha significati profondi, eclettici, assorbiti da ogni esperienza culturale in cui la poesia dei tempo, degli eventi, delle virtù laiche, della sensualità che è trama ed ordito per esternare il bi-sogno di uscire dalla finitezza si concilia con l'arte di D'Onofrio che avversa il nulla e prepara la scena d'armonia in cui il mondo è libero e innocente.
Qui il pittore è filosofo, poeta, profeta di una coscienza di valori. E proprio sulla scorta di quella presa di coscienza dei reale presente in cui tutto naufraga, (e proprio per questo, sgombrato il terreno da ogni ripensamento tardivo, bisogna di nuovo navigare, con maggiore audacia, senza pregiudizi), l'arte con la coscienza della libertà e dell'impegno, restituisce alle cose vive il loro aspetto, il loro senso, il rispetto che l'uomo deve all'uomo conferisce all'opera il senso profondo della garanzia d'eternità. In D'Onofrio Eros sconfigge Thanatos, si dissolve il senso di colpa. Da Nietzsche desume l'innocenza e l'armonia col mondo, da Heisemberg il senso della scienza di fronte a se stessa, e con piú amore egli riprende il discorso con una zucca, un fico d'india, una mela o un frutto esotico: non sono piú oggetti soltanto. Sono presenze vitali che esigono un ruolo e lo impongono alla conoscenza di chi ha con loro un colloquio costante. Sono monumenti, prese di posizione nello spazio, verità autogarantite che, nella giusta luce, offrono il godimento di una bellezza appena intuita-scoperta e la coscienza di un dovere che è il superamento della lezione del pensatore, il recupero del filo di Arianna sul terreno del terzo millennio.
Le cose reali sono presenti proprio nella coscienza della loro realtà: Husserl e le sue essenze eidetiche parlano dalla pittura di questo forte disegnatore e colorista, ma ancora meglio dobbiamo precisare, per averlo visto all'opera, disegnatore con il solo colore e senza il benché minimo ripensamento, logico con tutta la tensione sentimentale, dosato lungo l'asse che modula una facoltà dell'esserci da una polarità all'altra. D'Onofrio è mobilissimo, acceso, dominato da una passione che solo nel colore avrebbe potuto determinarsi e verificare la conoscenza come esperienza.
A questo punto il pittore pedagogista risolve nell'arte una intuizione come quelle di Dewey. Se l'esperienza è un tuffo nell'ignoto, è un tentare, l'esistenza può diventare traumatica. Se l'esperienza è un flusso continuo, se l'individuo è un evento, occorre garantirsi. E torna questo verbo dal signifi¬cato preciso, con la guida dell'intelligenza creativa, che è scienza e cono¬scenza, che reagisce alla precarietà del circostante, lo modifica e si modifica. D'Onofrio non sbaglia quando si conferma artista in continua crescita, quando non esclude dal suo repertorio nessun pensiero e nessuna espe¬rienza: tutto converge all'uno, l'eclettico salva il meglio, .la vitalità di ogni tensione e la organizza in una visione unitaria secondo i canoni di una conoscenza che coincide con la funzione pratica: una moralità che non consente l'effimero, che tende ad un risultato, che guida e procede. Intanto attinge al piú vasto repertorio che l'uomo abbia mai prodotto, allo spazio noto e tradizionale, all'esperienza universale. E senza arzigogoli. Una melagrana è passione, mito, bellezza con un segreto e una palese realtà. Non è frutto che pende solo dai rami del breve orto. I cedri che ridono in una spalliera, in una sintesi d'albero, proprio nel cortile della casa di Salvatore D'Onofrio, hanno l'umore di generazioni, hanno pazienza, coraggio, passione, ma anche se radicati, appartengono all'universale umano. II globale coinvolgimento li ha fatti esperti di un sano tradizionale sentire, ma non li ha resi immuni dagli effetti di una nube atomica: veramente il mondo oggi è sulla soglia di casa nostra; la sua dinamica visita, specie nelle incongruenze, a chi non si muove neppure dalla quiete di una stanza di meditazione. E come potrebbe essere evasiva una pittura che è dominata da un forte sentire? D'Onofrio non denuncia il deserto. Fa etica della vita, distendendo, manipolando, strutturando i suoi drappi preziosi sui mobili tradizionali, prendendo con mani delicate e pensose gli oggetti che lo ispirano. Un orologio, un gioiello, un cammeo, dei peperoni che sono forma e colore, frutto e costanza, sono segnale di un'energia che ritorna con le stagioni, assumono una funzione di guardia, di prima fila, di caposcena, un peltro o una bottiglia. Il pittore poeta compone un cesto di frutta, apre un libro che nella luce si sfoglia e parla alle cose assembrate come uomini attenti alla lezione e tutto il discorso è umano: la pittura ha adeguato il pensiero all'essere. Il barocco, inventato come reazione al disordine, alla perdita di memoria al brutto ed informe che impera dovunque si rompe il patto sociale, si fa portavoce di individualità e libertà, e perché no, di quella sospirata magnifica anarchia che a tutto attinge e in sè trova la legge che rispetta la vita e i suoi valori. Le immagini hanno una densità compositiva, una tridimensionalità volumetrica, parlano dal palcoscenico dove si abbelliscono alla luce: sono vive. La percezione immediata delle cose, dell'esistente non è simbolo per questo pittore che, da Napoli, rinnova la lezione di De Chirico e Sciltian, con ben diverse istanze e motivazioni. La continuità è nella coscienza della forma, va subito precisato che i contenuti sono estremamente diversi perché le immagini di D'Onofrio non saranno mai simboli. Possono essere tutt'al piú metafore che dicono la sostanza mirabile della vita,. un fluire che puisa:in,tutto -l'esistente esi chiarisce al forte sentire. Se dovessi definire quest'arte che fissa le impressioni nella loro pura evi¬denza, nella metafora irripetibile, che è solo luce integrante gli aspetti diversi della presenza ispiratrice, la chiamerei « impressionismo dell'eternità ».
Proprio come Pasternak definisce la propria poetica che esige la perce¬zione immediata delle cose e intanto vuole raggiungere delle categorie asso¬Iute.
Perciò è difficile il barocco di D'Onofrio. In esso parlano Galileo, Shake¬speare, Rabelais, Michelangelo e Raffaello a colloquio con Rubens, Leo¬nardo, Velasquez, la piú alta produzione poetica, la piú vasta folla di immagini, riferimenti privati, sensazioni visive, spazi ampi e solenni, percorsi arditi in volti noti e continuamente investigati perché il mistero palese, la presenza nel giorno, ha mille luci e mille mutamenti.
Se parliamo di D'Onofrio ritrattista, gli dobbiamo subito riconoscere il dono di una poetica interiore che appunto nel suo « impressionismo d'eter¬nità » percepisce l'integralità dell'evento personaggio.
Lo fissa seguendo il percorso della luce che indaga, scopre, vivifica un resoconto che, all'impatto, è maestoso, ampio, solenne, restituito alla reale esperienza di vita: il tempo e lo spazio della sensazione trasferita in imma¬gini.
I personaggi ritratti da D'Onofrio portano il loro messaggio come marchio di autenticità: sono loro non perché le luci, il tratto, il segno, hanno colto la rassomiglianza, ma perché conservano intensa la grandezza della vitalità. Nel ritratto dedicato a suo padre il pittore ha liberato una dimensione forma¬persona-personalità; ci sono le tensioni e i dubbi di un uomo attivo, forte, positivo, intelligentemente connaturato alla fisicità delle sue matrici di terra e coerenza. I vari « Nicola » e « Don Luigi » con i quali ho appreso ad avere dimestichezza, senza conoscerli di persona, sono interiorità espresse tra biografia e psicologia, sinceri, di una bellezza che solo la vita piena sa garantire. Così pure sono mirabili i segni che affidano al tempo l'adolescenza, l'infanzia, un momento di intimo sentire e sono tanti i volti di allievi, di bambini, di visioni domestiche raccolte in sintesi di luci dove parlano occhi, volti messi a nudo, poesie profetiche le quali, dall'incontro imprevedibile hanno definito l'evolversi di un evento. C'è sempre un dopo nei ritratti di D'Onofrio, anche in quelli allo specchio: i suoi autoritratti principalmente quelli che crescono in piena evidenza, dicono l'accingersi a fare, la tensione e mai la stasi. Anche quando il momento difficile dissolve nella luce il tratto somatico, c'è sempre, anche di fronte all'ineluttabile, la ripresa. La vecchia che ride, si ritrova nel bagliore che è soglia di dispersione: l'artista alla fatalità oppone la sua arma, la sua conferma a resistere, a restare nell'opera viva.
Un particolare cenno meritano i disegni.
Anche qui la ricerca è nel labirinto umano, con rispetto alla fedeltà della dimensione vitale, con una forza attrattiva interna e centripeta. L'istintiva immediatezza coglie felicissime illuminazioni: anche la sensualità si risolve in un respiro aperto, in una sigla energetica di notevole rilievo.
C'è poi lo sfarzo delle grandi opere alle quali convergono infiniti rivoli culturali e poetici, amalgamati nell'unità della visione pittorica, della profondità dell'idillio che ricrea un naturalismo decorativo, sentimentale nel piú alto equilibrio come per una germinazione spontanea che faccia convergere sulla scena i protagonisti di un'avventura senza epilogo. E neppure senza prologo. I protagonisti di D'Onofrio, uomini e cose, le compresenze sceniche, recitano tutti un ruolo primario. Il loro è monologo e mostra di sè, consapevolezza del valore e sostanza di una visione, piacere di recitare e sentirsi vivi, sottratti alla smemoratezza, pacati nel colore che persuade, che assume la sapienza lo¬gica.
Per D'Onofrio il tempo non è finzione. E specchio d'anima che la forte perizia tecnica evidenzia con la innocente lussuria dello sfarzo realistico nell'oro, nell'azzurro, nel rosso, nei fondi lavorati con ardore con la volontà di comprendere tutto e tradurlo in arte con una forza titanica che ha fede nel fu¬turo.
Tutto è vero in questo artista che fa una pittura mirabile e tanto farà con il suo credo, la sua tenacia, la moralità di un'arte che a tutti i tempi appartiene e resta « a garanzia d'immortalità ».

Angelo Calabrese


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