Storie perdute. La marcia verso Napoli per sfidare il feudatario Francesco Antonio Muscettola, la sua fuga e la vendetta. La storia di un piccolo casale che scrisse una grande pagina di coraggio nella “Rivoluzione di Masaniello” Luglio 1647. Napoli è una polveriera. Le campane del Carmine risuonano sopra una città in fiamme, dove il pescivendolo Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello, ha guidato il popolo alla rivolta contro il viceregno spagnolo e le sue esose tasse. La nuova gabella sulla frutta è solo la scintilla: da anni il popolo è oppresso da tributi, carestie e abusi feudali.  In pochi giorni, la rivoluzione si estende oltre le mura della capitale. I casali e le terre del contado napoletano si sollevano, ognuno con le proprie ragioni, ma uniti dallo stesso grido: giustizia contro i soprusi. Tra questi luoghi, anche Melito, piccolo casale a nord di Napoli, si appresta a scrivere una delle pagine più vibranti — e tragiche — di quella rivolta e della sua storia.


22 luglio 1647 – I Terrazzani di Melito marciarono su Napoli   Il feudatario di Melito era Francesco Antonio Muscettola, Regio Consigliere e Cavaliere del Seggio di Montagna. Un nobile potente, descritto dalle cronache come uomo “partigiano spietato degli Spagnuoli” e noto per “tormentare i suoi vassalli” approfittando dell’impunità garantita dal potere vicereale. Il Muscettola si rifiutava di abolire la gabella sul pane, che costituiva una delle sue principali rendite feudali. Per i melitesi, che vivevano di agricoltura e piccolo artigianato, era un’ingiustizia insopportabile. Il Conte Berardo Candida Gonzaga, nelle sue Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia (vol. II), racconta che:

Nel 22 luglio i terrazzani di Melito vennero in Napoli per vendicarsi del loro feudatario Antonio Muscettola, Regio Consigliere, il quale, perché partigiano spietato degli Spagnuoli, godea l’impunità nel tormentare i suoi vassalli. Fu arsa e saccheggiata la sua casa nella quale trovavasi gran numero di processi, ed egli salvò a stento la vita ricoverandosi nel palazzo del Cardinale.”

Quel giorno, circa cento uomini di Melito, armati di lunghi bastoni e guidati da un loro compaesano a cavallo, marciarono fino al Mercato di Napoli. Qui si unirono ai tumulti che già sconvolgevano la città, reclamando a gran voce che il Muscettola rispettasse “la franchigia ed immunità concedutagli dal Viceré.. Il cronista Francesco Capecelatro, nel suo Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647–165, descrive così la scena:

Lunedì 22 di luglio sorsero due gravissimi altri rumori, l’uno mosso dai vassalli del Consigliere Francesco Antonio Muscettola, cavaliere del Seggio di Montagna, il quale non aveva voluto in Melito, casale di Napoli, e poco lungi da essa città, torre interamente la gabella imposta sopra il pane, essendo sua rendita, come anche ne era la villa. Il perché i cittadini di essa, secondo il cattivo abuso che allora correva, vennero in numero di cento in circa armati di lunghi bastoni al Mercato, condotti da uno dei loro medesimi che se ne fe capo, e giva innanzi a cavallo… Onde alcuni di coloro […] passarono poi dal sequestro al fuoco, come agli altri fatto avevano, bruciandogli non solo tutt’i suoi arredi con argento lavorato, gioie, e moneta contante, ma ancora un nobilissimo studio di libri con notabil quantità di processi […] ed egli salvò a stento la vita.”

Rivolta MelitesiLa folla, incapace di ottenere giustizia, passò dalle parole ai fatti. La casa napoletana del Muscettola — situata nei pressi di Porta Nolana — fu incendiata e saccheggiata, insieme a quelle di altri esattori e ufficiali. Le fiamme divorarono documenti, atti, mobili e ricchezze. Il feudatario, braccato dal popolo, si rifugiò nel palazzo del Cardinale, sfuggendo per miracolo alla morte. Anche Melito in fiamme La furia popolare non risparmiò neppure la dimora melitese del Muscettola. Lo stesso Capecelatro annota che i vassalli insorti, oltre ad aver devastato la casa napoletana del loro signore, rivolsero la loro rabbia anche contro la sua residenza nel casale senza specificare, però, dove si trovasse:

[…]Bruciarono ancora i mobili di Giuseppe Sorrentino, di Carlo della Matina, di David Petagna valoroso soldato e tenente di Maestro di campo generale, di Berardino Grasso, di D. Francesco Basilio, di Giovan Tommaso Lettieri, di D. Giuseppe Carafa, di Agostino de Juliis, di Donato de Bellis, del Principe di Marano in detta villa, del Consigliere Francesco Antonio Muscettola, una in Napoli e l’altra i suoi vassalli nel casal di Melito, come similmente ferono a Caivano della sua i vassalli di esso Duca.” (F. Capecelatro, Diario delle cose avvenute nel Reame di Napoli, 1647–1648)

L’assalto fu tanto simbolico quanto materiale: un atto di vendetta contro il potere feudale, contro chi da anni gravava sul pane e sulla vita del popolo.


Ottobre 1647 – La Vendetta dei Nobili

Vendetta dei nobili La rivolta non restò impunita. Quando la fiamma di Masaniello si spense, l’aristocrazia napoletana passò al contrattacco. Tra il 13 e il 15 ottobre 1647, il Duca di Maddaloni marciò verso Melito con trecento cavalieri, accompagnato da Lucio Sanfelice, dal figlio del Muscettola e da altri nobili. A loro si unirono migliaia di soldati: un’armata di circa diecimila uomini. Ancora una volta, è il Conte Candida Gonzaga a restituirci l’immagine drammatica di quei giorni:

Intanto i nobili, vedendo che la plebe non cessava dalle ostilità, non lasciavano d’armarsi. Il Duca di Maddaloni giunse con trecento cavalli in Melito, con Lucio Sanfelice ed il figlio del Consigliere Muscettola, feudatario di quella città, e con molti altri Signori, seguiti nell’assieme da circa 10 mila armati, i quali per le paghe scarse che aveano, invece di marciare su Napoli, cominciarono a saccheggiare i vicini paesi, sicché i terrazzani, al solo sentire che questi si avvicinavano, con le armi si opponeano a farli entrare nei loro paesi… Il Maddaloni intanto, il Sanfelice, ed i figli del Consigliere Muscettola fecero saccheggiare la terra di Melito, per lo che il Toraldo, tenuto dal popolo qual consigliere, fu obbligato di metter una taglia di Ducati mille per ciascuno di essi.”

Melito fu dunque saccheggiata e devastata. Le case arsero, i campi furono depredati, gli abitanti pagarono con la vita o con le proprie sostanze la colpa di essersi ribellati. Il Toraldo, figura stimata dal popolo, cercò invano di fermare la vendetta imponendo una taglia di mille ducati per ciascun aggressore. Ma la rappresaglia era ormai compiuta. Francesco Toraldo d’Aragona, era nobile napoletano e uomo d’armi fedele alla Spagna, ma travolto dagli eventi della rivolta di Masaniello. Nominato “generalissimo del popolo” per guidare le milizie popolari, la sua ambiguità politica — diviso tra la lealtà al viceré e la pressione dei rivoltosi — lo rese sospetto a tutti. Morì decapitato dal popolo pochi giorni dopo il saccheggio di Melito, il 21 ottobre del 1647, vittima della furia che egli stesso aveva cercato invano di contenere.   


Memoria di una Ribellione

La rivolta dei terrazzani di Melito fu un episodio breve ma emblematico della Rivoluzione Napoletana del 1647. Non un tumulto isolato, ma parte di quella più ampia ondata di protesta che, da Napoli ai suoi casali, scosse le fondamenta del potere feudale e mise in discussione l’ordine secolare tra nobili e popolo.  Una pagina tragica nel suo epilogo per Melito, piccolo paese del contado, che ebbe il coraggio di ribellarsi a uno dei consiglieri più temuti e spietati del viceregno. E se la sua rivolta fu soffocata nel sangue, la memoria di quei giorni rimane un segno tangibile della sete di giustizia e di libertà che percorse il Regno di Napoli in quell’estate infuocata del 1647. 

Da: melitonline.net