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recensioni
A garanzia d'immortalità - R. Civello
NATURA « VIVA » DI SALVATORE D'ONOFRIO
Una sintassi rigorosa, affiancata dal piú sottile filtro
stilistico, al servizio dell'idea; la pittura restituita al
suo ruolo primario di evocazione e approfondi¬mento: è
questa la piattaforma operativa, con tutte le implicazioni semplici
ed insieme estremamente complesse che una simile scelta comporta,
sulla quale il noto artista napoletano Salvatore D'Onofrio ha
messo a frutto le qualità native. Stimolato sin dalle
prime esperienze da generose urgenze - pulsioni estranee agli
« accadimenti » del quotidiano e riferibili invece
alla persistenza delle latitudini spirituali - ha nobilitato
il linguaggio delle cose, di un piccolo universo apparentemente
inerte, rivelandone la metafisica e vibrante cora¬lità.
Cosí la natura morta che egli privilegia (pur essendo
anche ottimo ritrattista) testimonia le sue linfe clandestine,
diventa piú viva che mai, s'incardina come presenza magica
alle sorti dell'uomo, facendosi allegoria dell'anima. È
già accaduto, piú che in Braque, dove la concretezza
dell'og¬getto si opponeva alla forma pura, con questa o
quell'altra Vita silente dechirichiana; e ancor prima con Cézanne,
ad esempio nella Natura morta con cipolle del Louvre; o con
i fiori di Fantin-Latour. Ma bisogna dire che qui, in D'Onofrio,
escludendo qualsiasi prospettiva gerarchica, il suggerimento
interno, quel misterioso transfert che sottrae il dato contestuale
alle angustie della cronaca per condurlo ad approdi senza tempo
e colmarlo di imprevedibili risonanze, è piú evidente:
non potrà sfuggire a chi sappia guardare con vigile occhio
che il pittore permea la favolosa vendemmia oggettuale, che
gli nasce sempre a filo di sogno, della propria tensione etico-intellettiva.
Il consenso patetico e il pensiero concorrono, in parallelo,
a riscattare la forma dal provvi¬sorio.
Salvatore D'Onofrio sembra immergere le cose - un bricco, un
frutto, un vaso, un libro, una bomboniera - in una indefinibile
reverie nella quale gli spazi del reale diventano inquieti ed
ambigui, i contorni oggettivi perdono la loro consistenza e
ogni dettaglio migra verso sconosciute sensazioni. Ma non si
pensi ad un languore tardoromantico, al « crepuscolo »
di tipo gozzaniano: l'impegno dell'artista,. che è poi
il suo umanissimo turbamento, è nella certezza di un
oltre che sconfessa le effimere epifanie della terra.
Dipinga delle Pagine antiche coi grande drappo rosso che sovrasta
la fruttiera e gli altri oggetti, una Teiera con macinino e
cipolla, un Concerto sul tavolo dalle piú disparate preziose
componenti, un Cocomero, boccale e bilancia, solleva l'illusoria
umiltà della visione fino alla eloquenza estrema dell'immagine,
che ancora una volta Apollinaire chiamerebbe « orfica
» per la sua energia di superiore comunicazione. Dal rapporto
sensitivo, che attiene alla vicenda fenomenica ed è dunque
di per se stesso infecondo, all'indugio contemplativo e alla
trasposizione onirica; come dire al sovrasenso, che coinvolge
insieme le coordinate dei cuore e della intelligenza e lascia
intatta la poesia di sempre.
Perché Salvatore D'Onofrio, pur meditando a fondo il
problema esisten¬ziale, come pochi altri artisti oggi fanno,
resta sempre di qua del sillogismo teorizzante. Egli dipinge
sulla scorta tenace dell'emozione; e se è vero che è
un pittore che pensa, egli è anzitutto un pittore «
che sente ». La pienezza affettiva è ardore vitalistico
ed è per questo che la materia delle sue composizioni
s'ingemma di luce, quasi toccante polifonia scandita sul ritmo
del sentimento.
Né, d'altra parte, nuoce a D'Onofrio lo scrupolo di una
impeccabile filologia: la dosatura delle valenze chiaroscurali,
che escludono, come av¬viene per gli Impressionisti, il
gioco puro e semplice dei timbri, il velluto d'atmosfera che
addolcisce le strutture anche quando appaiono condotte alla
soglia del trompe-l'oeil, il filtro prospettico, il rispetto
assoluto della diversa natura fisica degli elementi interpretati,
se dichiarano la portata del magistero professionale non mortificano
affatto il calore e l'autenticità dell'ispirazione.
L'artista è in stato di grazia perché la sua condizione
creativa è accom¬pagnata da perenne stupore, privilegio
del fanciullo vichiano e di ogni vero poeta della parola e della
figurazione. Su questi presupposti D'Onofrio ha dilatato e umanizzato
un genere che fu tanto diffuso nel XVII e XVIII secolo, soprattutto
ad opera dei fiamminghi; e ha conciliato la tradizione con gli
umori migliori della contemporaneità, nell'immutata sintesi
desanctisiana di conte¬nuto e forma.
Il Vaso con fiori, dove l'orchestrazione cromatica delle smaglianti
corolle è bilanciata sapientemente dalla castigatezza
delle campiture brune del fondo, il Manichino ed altri oggetti,
caratterizzato da una ambiguità sottil¬mente allucinatoria,
ai limiti del surreale, questi ed altri dipinti (con i fichi
d'india, lo scrignetto, la caffettiera di porcellana, l'aglio,
le chiavi, le forbici, tutto un mondo assunto dalla intricata
sovranità del vissuto), come già un Fruttivendolo
e tutti i ritratti realizzati con sicurezza di scavo, testimoniano
che Salvatore D'Onofrio affronta la pittura con ostinato amore,
non tanto come mezzo edonistico di appagamento e di liberazione,
ma piuttosto come inesauribile fonte di conoscenza.
Un dono di sè che non ammette riserve; ed è, infine,
mirabilmente salvifico, perché, se da un lato districa
dai mostruosi labirinti della storia presente, dall'altro permette
una intuizione profonda dell'essere, offre una risposta ai mille
interrogativi della coscienza. Ecco perché nessuna cosa
è condannata al silenzio ed il pittore dà un enorme
peso colloquiale a tutte le apparenze. Non si contenta di registrare
il visibile, non colleziona « aspetti », ma cerca
come Ruskin, sotto il mutevole atteggiarsi della scorza, l'invisibile.
Sotto questo profilo D'Onofrio può essere ancora d'accordo
con la rivolu¬zione impressionista, in quel che essa ha
di sostanziale e duraturo al di là delle innovazioni
tecniche: come i grandi maestri che operarono negli ultimi decenni
del secolo scorso, egli non è incline a rappresentare
un soggetto, ma a contemplare ed esplorare un motivo.
Oggi, come ieri, una vittoria dello spirito sull'aridità
di un umanesimo della macchina, sulla massificazione e la cenere.
Per dirci che la pittura, se offerta da un cuore sgombro di
idoli, potrà essere ancora garanzia di sopravvivenza.
Renato Civello
Simulazione e realtà - R. Civello
Salvatore D'Onofrio sembra immergere le cose - un bricco, un
frutto, un vaso, un libro, una bomboniera - in una indefinibile
reverie nella quale gli spazi del reale diventano inquieti ed
ambigui, i contorni oggettivi perdono la loro consistenza e
ogni dettaglio migra verso sconosciute sensazioni. Ma non si
pensi ad un languore tardoromantico, al "crepuscolo"
di tipo gozzaniano: l'impegno dell'artista, che è poi
il suo umanissimo turbamento, è nella certezza di un
oltre che sconfessa le effimere epifanie della terra...
Pur meditando a fondo il problema esistenziale, come pochi altri
artisti oggi fanno, resta sempre di qua del sillogismo teorizzante.
Egli dipinge sulla scorta tenace dell'emozione; e se è
vero che è un pittore che pensa, egli è anzitutto
un pittore "che sente". La pienezza affettiva è
ardore vitalistico ed è per questo che la materia delle
sue composizioni s'ingemma di luce, quasi toccante polifonia
scandita sul ritmo del sentimento.
Renato Civello